Inauguro il nuovo arredamento di questo spazio web con una breve risposta all’intervento proposto da Giancarlo Livraghi qualche giorno fa e nel quale si trattava della stupidità umana e del cosiddetto ‘giovanilismo’.
Il giustissimo intervento di Livraghi potrebbe essere riassunto in un elogio dell’esperienza, e di tutti i vantaggi che da essa derivano all’interno di un mondo in cui l’essere giovani sembra sempre più assumere i connotati di un vantaggio ontologico. Dare merito insomma a chi di dovere, al di là dell’età anagrafica, e rispettare le caratteristiche di ognuno, le qualità personali, senza indulgere in artificiosi conflitti.
In linea di massima non vedo come si potrebbe essere in disaccordo con una posizione di questo tipo, ma d’altra parte mi vedo anche costretto ad ammettere come il ‘giovanilismo’ sia una delle poche speranze ancora presenti in questo paese. E sarebbe forse interessante chiedersene il perché prima di confutarla bollandola come stupidità.
Credo che questo conflitto derivi in primis dal fatto che si sia assistito ad una rinuncia al proprio ruolo da parte degli adulti. Questo il punto di partenza. Non mi interessa in questo contesto andarne a cercare i motivi, le cause, gli sviluppi. Lo prendo come dato di fatto che la società rende visibile.
I giovani oggi si trovano in una situazione paradossale; al primo colloquio di lavoro viene richiesta loro un’esperienza pregressa che non possono avere. Questo, naturalmente, avviene senza che le aziende manifestino la volontà di formare, prima di assumere. Ugualmente al momento di richiedere una borsa dottorale viene richiesto un elenco di pubblicazioni, quando la commissione sa benissimo che uno studente di laurea specialistica, in media, non ha alcuna pubblicazione proprio perché nessuno ha mai pensato di introdurlo in qualche modo in questo mondo. Eppure la lista delle pubblicazioni viene chiesta, e resta la presupposizione che si debba entrare nel mondo della ricerca in maniera autonoma, senza alcuna guida.
Sono solo due esempi tra tanti che mostrano la rottura che esiste tra il nuovo arrivato e lo stabilizzato, tra il neoassunto e l’esperto, tra il giovane e l’anziano. L’inseguire solamente il risultato ha fatto si che si perdesse di vista la necessità di tramandare il sapere acquisito, di trasmettere alla generazione successiva l’esperienza accumulata nel corso degli anni. Anche in questo contesto sembra infatti essere in vigore la più ferrea legge sul copyright: quanto ho appreso è mio, devo usarlo come arma per mantenermi in sella il più a lungo possibile per difendermi da chi arriverà dopo di me. Posizione alquanto discutibile ritengo.
Mi chiedo cosa sarebbe stato del genio di Leonardo se, presentatosi per la prima volta in bottega a Firenze, gli fosse stato chiesto direttamente di disegnare “La vergine delle rocce” senza passare prima qualche anno a fare i colori per il ‘maestro’, ad apprendere tecniche e segreti del mestiere. Forse il suo genio gli avrebbe comunque permesso di giungere a produrre i suoi capolavori, ma forse no.
Il ‘giovanilismo’ è una delle ultime speranze d’Italia. Speranza perché sogna un ricambio forte in cabina di regia, un ricambio che basa ogni sua speranza sul cambiamento stesso. Non lontano dalla posizione delle neoavanguardie degli anni ’70, in cui la finalità risiedeva nel cambiamento stesso.
Speranza quindi che si basa sul semplice calcolo statistico secondo cui, vista l’attuale situazione, anche prendendo giovani a caso ci sarebbe un’effettiva possibilità che le cose migliorassero perché fare peggio è davvero difficile. Inutile dire, ovviamente, che in fondo questa speranza resta solo paradossale e inconcludente perché i giovani di oggi non sono altro che il prodotto dei giovani di ieri e anche se questi ultimi hanno rinunciato da tempo a trasmettere il proprio sapere, a farsi carico di una degna formazione di chi verrà dopo di loro, l’educazione passa lo stesso, attraverso il semplice meccanismo dell’identificazione, dell’imitazione.
Mi chiedo allora se il conflitto, ritenuto artificiale da Livraghi e Sartori, non sia in realtà conseguenza reale di un cambiamento sociale in atto da lungo tempo che vede, in verità, la compressione temporale del ruolo di giovane e di anziano, categorie un tempo fortemente distinte e oggi spesso difficili da riconoscere tra loro.
L’utilità dell’esperienza è quella di poter essere trasmessa, e chi ne possiede in quantità a questo dovrebbe dedicarsi. Piuttosto che pensare alla semplice meritocrazia, sarebbe forse il caso di pensare ad un tandem in cui esperienza e innovazione possano dialogare tra loro e si possa cogliere il meglio da entrambe. Ma l’impressione che ha un giovane in questi casi è sempre quella di un dover chiedere a chi occupa il posto da tempo di “farsi un po’ da parte”, di assumere il ruolo che sarebbe suo, quello di aiutante e non più di dirigente. Impressione che si crea perché al giovane non viene mai chiesto di affiancarsi per tempo all’anziano, in maniera tale da ‘apprendere il mestiere’. E verrebbe davvero da chiedersi come mai.
C’è una netta rottura indubbiamente. E prima di chiedersi come mai i giovani cercano spazio a destra e a manca, bisognerebbe chiedersi come mai gli anziani non siano quasi mai preoccupati di preparare la propria successione nel migliore dei modi. La vita non è infinita per nessuno del resto, ma l’utilità collettiva è sempre più difficile da assumere rispetto alla propria. Con grande mancanza di previdenza.
Cosi facendo continuiamo a giocare sulle generalizzazioni e a dimostrare la nostra stupidità, raccogliendo le nostre speranze nelle richieste più paradossali: gli anziani che gridano “Spazio ai giovani!” e il datore di lavoro che continua a chiedere abnormi passate esperienze a chi si rivolge a lui pregando di potersela fare.
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